Uno dei passaggi determinanti che si realizza nel lavoro all’interno del gruppo è il cambiamento del genitore, preludio indispensabile a che l’adolescente problematico, quello che ha spostato il suo stato dal malessere esistenziale fisiologico al disagio sociale, sperimentazione di sostanze e abitudini in grado di generare dipendenza, possa a sua volta cambiare e riprendere il controllo della rotta, capacità di analizzare in modo critico gli eventi e le emozioni e rendersi consapevole delle proprie scelte.
Rivedendo l’esperienza condivisa con gli altri genitori del gruppo mi sento di affermare che il cambiamento si realizza nella ripresa della propria genitorialità, intesa come coscienza del proprio ruolo nel campo dell’etica della responsabilità: nei confronti dell’adolescente essere genitore significa non più e non solo svolgere un compito di allevamento del figlio all’interno di schemi ben definiti, scelti o indirizzati dagli adulti, ma fornire sostegno ad un soggetto che si affaccia alla vita al di fuori degli ambienti abituali e incontra realtà e pericoli finora inusuali.
La percezione dell’amore del genitore per un bambino è quella di una autorità rassicurante, una forza accettata e riconosciuta come superiore, che detta regole e al tempo stesso conforta i suoi bisogni e contiene le sue paure.
La percezione della genitorialità verso un bambino si esalta nell’emozione eccitante trasmessa da una manina minuscola che si affida completamente e invade tutti i sentimenti, il cuore e l’anima; chiede e dona amore in modo diretto e immediato.
Non è più così nell’adolescenza, il momento dei cambiamenti: la manina non si affida più, viene meno la trasmissione diretta di emozioni, la certezza di essere una autorità in grado di governare gli eventi svanisce, essere genitore diventa improvvisamente arduo e faticoso, drammaticamente faticoso se si sovrappongono situazioni di dipendenza.
L’adolescente non è più il figlio che segue un percorso programmato dagli adulti, ma è un soggetto che affronta in prima persona le situazioni proposte dalla vita, rifiuta la mediazione, sperimenta in prima persona l’incontro con cose ed eventi che richiedono capacità critica di scelta. Alcol, sostanze, fumo, gioco d’azzardo, depressione, tensioni sociali, sono alcune delle più comuni situazioni con cui l’adolescente si confronta e che possono complicare il suo percorso, trasportarlo dal malessere esistenziale fisiologico per l’età al disagio sociale.
Nell’adolescenza la manina si stacca, non cerca e non accetta più di essere tenuta e indirizzata, e al genitore si impone un cambiamento nel modo di interpretare la sua responsabilità, non decide più l’itinerario ma deve essere pronto a prestare assistenza su un tragitto che interessa al figlio, condivisibile o no che sia la scelta effettuata.
L’adolescente si attrezza a entrare nella collettività come membro a pieno diritto e non come spettatore, aspira a entrare in contatto con gli altri con pari dignità e non come subalterno, contesta le autorità, e questo genera una naturale situazione di opposizione al genitore.
Ai genitori spetta di defilarsi, incoraggiare ma non sostituirsi, essere pronti a dare sostegno ma senza invadere la sfera individuale, comportarsi come membro della collettività, pari tra i pari, autorevole sì ma non autoritario, testimoniare con uno stile di vita coerente, in armonia ed equilibrio, il valore degli insegnamenti finora trasmessi.
All’interno del gruppo di auto aiuto si osserva facilmente una diversa dinamica, in cui il percorso “fisiologico” dell’adolescenza, attraverso il quale il genitore assiste all’ingresso nella vita del figlio, si dissolve e si trasforma in qualcosa di decisamente più complesso e tormentato: è il caso del disagio collegato alla dipendenza da sostanze, o abitudini, adesione a stili di vita che si collocano fuori da una dimensione di crescita individuale e di un rapporto positivo con la socialità.
Quando il figlio adotta comportamenti platealmente trasgressivi, incorrendo anche in violazioni alle regole del comune vivere civile, e assume atteggiamenti aggressivi oppure manipolativi nei confronti dei genitori, questi percepiscono una situazione di grave pericolo e presi dallo sconforto faticano a mantenere un comportamento adeguato alle esigenze.
Affrontare un cambiamento così drammatico comporta la sensazione di non possedere le risorse per risolvere il problema, prevale il senso di incapacità, che si sposa facilmente con sensi di colpa, e il genitore, sopraffatto dall’affettività e dall’ansia, attua un cambiamento inefficace.
Nel tentativo di recuperare il rapporto con il figlio e preservare la sua fragilità sceglie la via di un rapporto dialettico, nella convinzione o speranza di riuscire a convincerlo dei rischi e pericoli che sta correndo; così facendo si ritrova costretto al confronto con lo stato d’animo del figlio, mai coerente e comunque instabile, perde il controllo della propria dimensione ed è portato ad assumere un comportamento ondivago, incoerente, per cui si manifesta a volte accondiscendente e a volte aggressivo, sull’onda delle emozioni o delle aspettative del momento.
In virtù di questo cambiamento il genitore si ritrova di fatto senza una strategia e di volta in volta appare compiacente, oppositore, aggressivo, seducente, repressivo, amichevole, perde la sua credibilità e autorevolezza e la possibilità di essere utile al figlio.
L’adolescente problematico manda in realtà un messaggio particolarmente impegnativo ai genitori, una richiesta di aiuto speciale, chiede di essere contenuto e sostenuto, ha un bisogno drammatico che il genitore si dimostri tale, capace di affermare e difendere principi e valori in cui crede.
Dal lavoro di condivisione all’interno del gruppo è emersa la convinzione in tutti noi che il sostegno più prezioso che il genitore può dare ai figli è quello di affermare la propria identità, prendersi il rispetto dovuto, mantenere un comportamento fermo e deciso, coerente con i principi etici che gli appartengono, in sostanza riaffermare la propria autorevolezza e genitorialità.
Sul piano pratico il cambiamento dall’atteggiamento passivo verso la ripresa di genitorialità si traduce nella capacità di uscire dalla dialettica sterile, dal dibattito oppositivo, riprendere la forza di presentare in modo fermo, pacato ma risoluto, la propria impostazione etica, il che significa non scendere a patti con le pretese del figlio e riuscire a dire dei NO, quei no che nell’infanzia fioccavano decisi e che nell’adolescenza problematica si sono dissolti tra mille timori in un mare di sì, ni, forse, vediamo.
Questo cambiamento permette al genitore di riaffermare la propria dimensione genitoriale, il proprio ruolo di sostegno alla crescita del figlio: al suo NO non corrisponde un atteggiamento autoritario o privo di significato, quel no sottintende tutta una serie di SI, si al sostegno alle scelte consapevoli che il figlio deve assumere, perché lui e solo lui può decidere di dire SI alla vita, nessuno può assumersi la delega o giustificarlo, neanche il genitore.
Quasi come un gioco di parole questo cambiamento del genitore potrebbe essere definito un ri-cambiamento: dopo aver perso la capacità direttiva preesistente e una strategia propositiva il genitore si ristabilisce nella sua autorevolezza originale.
Un ostacolo che spesso si oppone alla capacità di pronunciare dei NO, no positivi, è la persistenza dell’affettività, l’esigenza di mantenere il contatto con il vissuto quotidiano del figlio, nel timore del precipitare degli eventi su una china tragica; questo timore può essere un pesante deterrente e va elaborato e superato.
Il prevalere dell’ansia da affettività rappresenta un aspetto negativo, un rischio che il genitore corre inconsciamente: trasformarsi da educatore in complice del disagio comportamentale del figlio.
La lettura degli eventi che abbiamo vissuto in questi anni nel nostro gruppo sembra confermare questa ultima osservazione: più il genitore si manifesta restio a dare dei no, più facilmente il disagio si cronicizza e gli eventi si incamminano verso soluzioni che sono state anche tragiche.