Stampa 

 

La prima volta che entrai in un gruppo mi presentai, raccontai la mia storia, poi mi misi in ascolto delle storie di coloro che mi stavano intorno. Quando uscii pensai che il problema di mio figlio non era poi così grave, che in fondo in fondo sì … era un brutto momento ma sarebbe passato senza troppe tragedie.
Mi stavo difendendo. Mi stavo già organizzando il piano di fuga.
Come già in altre occasioni precedenti e del tutto diverse della mia vita stavo accuratamente fuggendo il dolore: la mente aveva già trovato la soluzione giusta, si autoingannava per l’ennesima volta con qualche motivazione fasulla e mi consigliava di lasciar perdere.
Naturalmente, le diedi retta. Dopo qualche riunione non andai più.
Mio figlio non migliorò. Poco dopo mi separai da mia moglie. La situazione, in generale, si aggravò.
Decisi allora, spinto dal senso di responsabilità che mi sentivo addosso come padre e da una certa indefinibile indignazione crescente, di rientrare nel gruppo.
Mio figlio mi aveva in un certo senso messo all’angolo e costretto, controvoglia e per la prima volta in vita mia, a fare i conti con la paura di sentire il dolore.
Nel gruppo si sperimenta il dolore e la propria capacità di confessarlo, si esercita il coraggio come virtù, il coraggio di parlare di sé, dei propri errori o presunti tali, il coraggio di scoprirsi un po’ alla volta, ognuno con i propri tempi e modi. A volte non ci si riesce perché la paura è troppa.
Ma il dolore resta comunque il miracoloso collante che ci lega. Il dolore unisce, non si perde in chiacchiere.
E così, quasi senza volerlo, , di settimana in settimana, dentro di noi si fa strada una verità molto semplice che forse avevamo dimenticato, che forse non abbiamo mai conosciuto, che i nostri nonni hanno certamente sperimentato in tempo di guerra e di dopoguerra: vale a dire il fatto che condividere la sofferenza crea un certo affiatamento.
Per questo motivo il gruppo funziona. Se ci riunissimo, ipoteticamente, per discutere, ognuno, delle proprie e prossime vacanze estive, la discussione non avrebbe certamente la stessa intensità emotiva e presto perderebbe interesse.
In un’epoca come la nostra dove il dolore, la malattia, la morte sono severamente banditi dai massmedia, le occasioni di crescita sono pochissime.
Ci si sente vuoti, si vive una quotidianità fatta di relazioni usa e getta, si compra e si vende sé stessi con una certa facilità.
Ma il problema che ti ha creato tuo figlio ti catapulta improvvisamente in un’altra realtà, il gruppo, dove devi ricominciare a parlare di te.
Già…era molto tempo che non parlavi di te…. devi risalire alla tua adolescenza. In quel periodo discorsi ne facevi tanti, forse discutibili ma comunque interessanti.
Poi, dopo, basta. Hai smesso di porti domande.
Sei cresciuto……ti sei formato le tue convinzioni… ti sei organizzato bene per avere sempre una risposta a tutto ed ora che sei pronto ad “insegnare” arriva tuo figlio col suo comportamento devastante, col suo disprezzo…tuo figlio che ti scombina tutto, che t’insulta, fuma, bestemmia e dice che sei noioso e pedante…. noi del gruppo ti stiamo intorno in questo momento, ascoltiamo con interesse questo tuo comprensibile sfogo…ascoltiamo ed osserviamo…ad esempio quando hai detto “noioso e pedante” ho visto tua moglie abbassare lo sguardo e respirare profondamente. Vorrà dire qualcosa o è una casualità?
Io, ad esempio, mentre parlavi concitato, con tutta quell’enfasi-devo dire la verità- qualche sbadiglio l’ho tirato (speriamo non te ne sia accorto)!
Non te lo vengo certo a dire ora che ci conosciamo poco perché penseresti che ti voglio giudicare.
No, non ti voglio giudicare, mi sforzo di ascoltare le emozioni che mi provochi mentre parli. Lo sbadiglio è venuto così spontaneo che neanche me ne sono accorto.
Torno a casa ridacchiando e più che mai convinto di come il gruppo rappresenti, per ognuno di noi, una bella occasione di rinascita personale.